Commedia

Il sol dell’avvenire (2023) di Nanni Moretti – recensione

Poco prima del tramonto, su un set arioso ma spoglio che viene man mano abbandonato dalla troupe di un film, Nanni Moretti rimane da solo a giocare con un pallone. Quando sopraggiunge la stanchezza, si siede su una panchina per rifiatare: alle sue spalle campeggia il tendone di un vecchio circo deserto. Il sol dell’avvenire è un autodafé. Moretti racconta come è il suo approccio contemporaneo con l’industria cinematografica, così come il linguaggio narrativo del cinema stesso, gli sono cambiati intorno talmente in fretta da confondere i piani di interpretazione tra divertimento e solitudine. Da quella che è una delle scene più delicate e forse personali, ci sarebbero tutti gli elementi per aspettarsi un finale cupo, quando invece si chiosa con un’elegia al passato, al suo di passato. Interpreti storici dell’allora Moretti, rampante debuttante alla regia introducendo una nuova forma espressiva di cinema.

Nell’ultimo film di Moretti il disorientamento del protagonista Giovanni genera una rivoluzione contro la sua identità, sfidando l’idiosincrasia e mostrando indulgenza anche quando all’apparenza non ne ha. Lo si nota in tante piccole svolte in controtendenza con l’impianto dialogico classico delle sue opere: storicamente nei film del “vecchio” Nanni gli interlocutori giocano spesso di sponda, tacciono dinanzi alla voce del demiurgo, lo subiscono. Nelle interlocuzioni paradossalmente è Nanni a “sopperire” ai dialoghi dei suoi personaggi. Certe volte inerme, altre volte determinato. Un’escalation emozionale capace di coinvolgere ed entusiasmare i vecchi – e i nuovi – estimatori del cinema morettiano.

Recensione di Alessio Giuffrida



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